Franco Pedrina

Sigfrido Maovaz

Si sa che spesso per il contadino un bel tramonto significa soltanto un modo di predire il tempo che farà il giorno dopo e che un bel albero è quello carico di frutta, ma chi è vissuto in campagna – senza dover necessariamente faticare sul solco – sa quanta dolcezza si nasconda dietro la vita semplice che vi si conduce. L’opera di Franco Pedrina, benché fatta di valori universali, si rivolge idealmente a coloro che amano questo semplice vivere, l’odore sempre nuovo della terra smossa e, perché no? Persino quel constante odore di letame mescolato al profumo dei fiori, del fieno appena seccato, del miele.
Penso infatti che pochi come Pedrina abbiano saputo darci una sintesi così viva della civiltà contadina, di quel particolarissimo modo di vegetare di pari passo con il fragile grano, con la fioritura dei meli, con tutto ciò che costituisce le speranze e le ansie degli uomini della terra. Nelle sue opere ritroviamo un mondo fatto di sovrapposizione, di antiche abitudini e vizi – ivi incluso il senso della libertà e del rispetto altrui -. Proprietà che si compenetrano, bizzarrie catastali che sembrano un’offesa al buon senso comune e che sono nate invece da dispute per un cesto di fichi, angoli sottratti alla ferrea legge dell’utilità immediata della terra e fatti per dare ombra, addirittura angoli a giardinetto – ricchezza dell’anima della padrona di casa -, rigagnoli contorti dove si va a pesca di anguille e di carpe. Proprietà spezzettate al limite del possibile ma che sono nella loro limitatezza e complessità piccole arche di Noé dove sono rappresentate nella flora e nella fauna, tutte le fonti di vita del parco contadino.
Nelle tele di Pedrina questa pace si riversa attraverso il filtro del ricordo, ed è così che talora il colore si illumina su un particolare, si approfondisce sino al tono quasi doloroso del segno irripetibile; il segno ha andamento capriccioso come se seguisse percorsi illuminati da stati d’animo sofferti o goduti. Ho tentato molte volte dio inquadrare questa pittura nel panorama artistico attuale senza riuscirci. La chiameremo semplicemente archeologia dei sentimenti. Archeologia condotta con mezzi moderni da un uomo che non crede solo nella tecnica o meglio nel tecnicismo.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Zanini, Roma, 1966)

 

 


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